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Testi critici

Passaggi liquidi

di Chiara Gatti
C'era una volta l'acquerello tradizionale. Quello che i grandi maestri dell'Ottocento, da Mosè Bianchi a Segantini, da Hayez a Previati, praticavano nella quiete del proprio studio, attratti dalle diverse soluzioni espressive di un mezzo immediato e, al medesimo tempo, difficilissimo.
Si perché, pur definendola “tradizionale”, la tecnica dell'acquerello può svelare tante varianti quante sono le mani che la praticano e non concede margine d'errore a chi vi si applica senza un mestiere sicuro. Per questo motivo alcuni geni ribelli (e audaci) della pittura del secolo scorso, Scapigliati in testa, come Daniele Ranzoni o Tranquillo Cremona, celebri per le loro immagini ariose e inafferrabili, campioni di emozioni vibranti, rimasero sedotti dal potere dell'acqua, della carta e dagli esiti sorprendenti che la combinazione fra i due poteva garantire.

La stessa magia sembra aver affascinato oggi Simonetta Chierici, erede di una linea ideale di autori votati all'acquerello che, fluttuando controcorrente, in un'epoca di troppe improvvisazioni, ha risposto con garbo alla cosiddetta cultura dell'effetto, dimostrando quanto si possa essere imprevedibili armati solo di pochi strumenti: una spatola, un rotolo di nastro, una piccola canna di bambù dalla punta sfilata. Per lei, artista silenziosa, che dipinge all'ombra di un giardino sospeso su Milano o a quella degli ulivi, nella riserva naturale dello Zingaro, nella Sicilia verde di San Vito lo Capo, la sperimentazione non va ricercata in nuovi mezzi, ma nella natura propria di un linguaggio duttile.
Come diceva Thomas Eliot: «Alla fine di tutto il nostro esplorare, ritorneremo là da dove siamo partiti e conosceremo quel luogo per la prima volta». Bene, nel suo caso, il luogo è quello della pittura-pittura; è lo spazio di una visione che prende forma (o non-forma) dentro i margini di un foglio, grande come un quaderno. E, allora, il foglio diventa taccuino di quel viaggio che ha sempre un ritorno. Sui suoi passi, ma con uno sguardo aggiornato a nuove esperienze, stimolo per rileggere il passato in chiave contemporanea.

Questo fa Simonetta Chierici quando dipinge acquerelli dai modi informali, quando attraversa i territori dell'astrazione, sconfina nel colore puro, indaga le profondità della superficie con piglio quasi spaziale, prima di ritornare, decisa, verso orizzonti conosciuti. Il suo gesto la segue in ogni direzione. O, meglio, segue i suoi umori. Si muove veloce come una lenza nelle tavole più istintive, graffi di sensazioni stese a ritmo tachicardico. Poi, improvvisamente, rallenta e asseconda il flusso che si distende, nei cicli delle Poesie o (non per nulla) dei Viaggi, in lagune monocrome, nei toni della sabbia e della nebbia, aperte a panorami pacifici. Ogni moto è sedato nell'attesa, in queste carte dove l'acqua si stratifica su altra acqua, evocando abissi universali.
Quanto è profondo il mare nelle calme piatte di Simonetta. Tanto da avere la tentazione di intingervi un dito dentro. Soprattutto quando lei si diverte a ingannare i sensi, ritagliando isole galleggianti – “isole bianche” le definisce, quasi fosse il titolo di un romanzo d'avventura – coprendo con cere o piccoli nastri frammenti di foglio, immuni così dal dilagare del colore. Luigi Bartolini, il grande incisore di primo Novecento, scoprì, anche prima degli americani dell'action painting, il valore dei bianchi intonsi, lasciati liberi di esprimersi nell'armonia della composizione.

E Simonetta Chierici fa tesoro di tale insegnamento, costruendo finestre fragili in cieli e terre (di Siena!) bucate da tasselli come passaggi verso altre dimensioni.
Già, i passaggi. Nella storia dell'arte, si sa, il loro valore è spesso duplice. Di passaggi fisici, legati al linguaggio stesso della pittura, alla materia e alla forma che da essa si genera. Ma anche di passaggi mentali, iconografia arcaica del limite, del confine e, insieme, del varco fra uno spazio e un altro. La linea pura, in entrambe i casi, sottile e tagliente come un margine netto, ne determina la frontiera, il “luogo” (per tornare a Eliot) in cui l'uno finisce e il secondo comincia. Che, però, per Simonetta Chierici, diventa il luogo esatto in cui si consuma il mistero del dipingere per velature. Poiché l'acqua “controllata” – come dice lei, attenta a ogni eccesso o fioritura – dissolve il limite in un orizzonte fluido. È un gioco abile di travasi, il suo, dove anche Finis Terrae, la “punta del mondo” dalla tradizione bretone, qui oggetto di un ciclo che mescola passaggi (tonali) a onde di cortine metaforiche, non sembra più un termine ultimo, ma una soglia da superare per andare oltre.

Ancora un viaggio, ancora un ritorno. L'importante, per Simonetta, è raccogliere, lungo il percorso, piccoli ricordi, da conservare come i bambini fanno con le conchiglie trovate sul bagnasciuga. Non oggetti, dunque, ma brani di natura. Foglie e fiori selvatici, di cui si intravede il profilo sciolto anch'esso nelle lagune del colore. E, poi, tentacoli di meduse, sinuose come sirene, acqua nell'acqua, leggere e molli, della stessa sostanza di cui è fatta la pioggia. Ma, soprattutto, le farfalle. Tante farfalle. Quelle di Petaloudes, la famosa Valle delle Farfalle, appunto, lingua di terra vergine incastonata fra le montagne sulla costa ovest di Rodi, che tremano di un frullare d'ali continuo, alla velocità del tratto che Simonetta libera sulla carta. Il movimento risvegliato nella sua calma piatta è imprevedibile quanto gli strumenti che l'artista sfila dagli astucci, fabbricati a misura di ogni esigenza espressiva.
Giuseppe Bertini, il vecchio romantico, direttore di Brera, mentre diluiva sulla carta i drammi di Dante, sentimenti allo stato liquido, confessava che solo nell'acquerello aveva trovato soddisfazione al suo bisogno di giocare con i mezzi, inventandone ogni volta di nuovi, per ottenere effetti inediti di luci e ombre sul bagnato. Lezione che Simonetta Chierici ha assorbito bene nelle sue mani risolute, ma altrettanto sfuggenti come l'acqua che modellano piano.
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