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Testi critici

Della ineffabile lievità

di Mario Borgese
Ogni incontro d’amore ci cede il suo segreto. Quello per l’arte vertigini di colori ci aprono al mondo. Lievi stesure grigio-azzurro-acquarognole raccontano il foglio. Emergono e soggiornano pensieri mai pensati e schiudono alla bellezza delle nostre chimere. Ed è così che i giochi intermediari del pensiero e del sogno, moltiplicano ed incrociano l’irreale e il reale per produrre quelle forme ex-tatiche dell’immaginazione. 

Simonetta ci conduce lievemente ad una malinconia tranquilla, ad una nostalgia della nostalgia e nella propria memoria l’odore di un bocciolo di primavera, il suo profumo nel germoglio della betulla, quell'odore che ci da quegli universi dell’infanzia, quell'odore, dunque, che nella sua prima espansione è un origine del mondo. Bosso e garofano, forse, nel ricordo lontano, ci restituiscono un antico giardino e la resina che cola dall'albero ha l’odore di tutte le nostre estati. Nella loro crescita fino al divenire cosmico, le immagini degli ampi spazi fino ai loro orizzonti sfumati e tenui sognano la materia; ci appare dunque il senso delle cose in quell'unione di cosmo e sostanza. Immagini che poi crescono da sole fino al livello del proprio universo. 

Spazi, non luoghi, strati della profondità vivente della terra, pasta profumata con la quale cominciamo a manipolare la sostanza del mondo. Mythos diceva Platone è ormai favola. L’uomo, infatti, non potendo più sognare si mise a pensare. Ma questi sogni tornano e il mito ritorna poesia nel flebile segno di un filo dato a Teseo che nel labirinto della sua anima vinse il mostro generato da Pasifae. E ancora, colui che cadde volendo ascendere verso ciò che è inarrivabile. L’Essere si raggiunge, ci dice Heidegger, anche poetando, vero Simonetta!
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